Che suono ha il cinema? Nel film di Evgeny Ruman, il cinematografo suona come le voci dei protagonisti, due doppiatori russi che, nell’Unione Sovietica prima del crollo del Muro, hanno fatto conoscere i capolavori del cinema hollywoodiano e non solo. Vicenda bizzarra e a tratti grottesca con un incedere sovente malinconico e dal sapore surreale. L’immaginario evocato dal regista israeliano è quello degli anni in cui “8½ “di Fellini vinceva il Grand Prix al Festival di Mosca, o quello decadente della fine di un’epoca appena dopo la caduta della cortina di ferro, in un mix di entusiasmo per le nuove spinte che arrivavano dalla modernità e di inconsolabile nostalgia per un mondo definitivamente perduto.
In “Voci D’Oro” si agita tutto quel mondo e il regista israeliano riesce a raccontarne sfumature e ambiguità con abilità funambolica: nella scelta dei toni divertenti e dolorosi insieme, nella definizione dei personaggi dolenti e bizzarri nello stesso tempo, nell’uso di un registro quasi tragicomico. È così che Evgeny Ruman mette in scena l’epopea di Victor (Vladimir Friedman) e Raya Frenkel (Maria Belkin), le “voci d’oro” del titolo: per decenni sono state due star del doppiaggio cinematografico sovietico. Le loro voci leggendarie hanno portato nell’Unione Sovietica oltrecortina tutti i film occidentali, ma nel 1990 con il crollo del Muro, i Frenkel decidono di fare Aliyah, ovvero emigrare in terra di Israele, proprio come fecero centinaia di migliaia di ebrei russi.
In Terra Santa però non c’è spazio per doppiatori di lingua russa, così dopo un primo brindisi al nuovo capitolo della loro vita in uno scalcinato appartamento in affitto, Victor e Raya si renderanno conto che tornare a lavorare nel settore è davvero difficile, se non improbabile.
Le difficoltà di reinserirsi in un mondo profondamente diverso da quello che si sono lasciati alle spalle sono il vero motore narrativo del film, che innesca una serie di situazioni assurde e inaspettate. Costretta a prendere lezioni di lingua in un centro per immigrati, la coppia proverà a reinventarsi: Victor dovrà accontentarsi di consegnare volantini porta a porta, Raya si ritroverà a usare il proprio talento per una linea erotica. Inizialmente restia e timida, finirà per diventare una delle voci più richieste con il nome di Margherita.
Quella che apparentemente si presenta come una commedia disillusa e scanzonata, altro non è che un omaggio alla settima arte attraverso le peripezie di Victor e Raya, che si sono conosciuti doppiando Le notti di Cabiria di Federico Fellini di cui sono grandi estimatori e c’è addirittura una foto che li ritrae insieme al Festival di Mosca per “8½”.
I riferimenti al regista riminese sono continui fino a proiettare alcune immagini de “La voce della luna”; c’è in questa presenza costante tutto quello che il suo cinema rappresentò per l’Unione Sovietica, che ne aveva fatto un vero e proprio culto. Onirica, come le sue visioni forse, lo è anche la coppia protagonista, che per certi versi ha i tratti sognanti e svagati di alcune figure felliniane.
Sullo schermo le citazioni non si limitano al solo Fellini, passano anche le scene di “Kramer contro Kramer” in cui Victor ha doppiato Dustin Hoffman, si citano Marlon Brando in “Fronte del porto”, “Spartacus” e “Mamma ho perso l’aereo”. Per i due personaggi principali di questa storia di sogni, fantasmi e romanticismo, “ogni film è un suono da scoprire”, ma è anche un colore e un sapore da ritrovare.
Al centro la questione del doppiaggio, arte ormai tramontata almeno per come la concepiscono Victor e Raya, ancorati ad una visione quasi magica della traduzione audiovisiva. L’iniziale ostinazione, che produce un effetto bizzarro e straniante nel suo essere fuori tempo, lascia in seguito spazio al disincanto, necessario perché possano ritrovare una propria identità in un mondo che corre veloce verso il nuovo decennio pur sotto le bombe della prima Guerra del Golfo, una dimensione di cui però non sono più protagonisti né comparse, ma forse “solo una voce in sottofondo”.
Elisabetta Bertucca (movieplayer.it)