Si chiama Solo, ma forse è più affascinante ascoltarlo come se fosse un duo, perché a ben vedere Felice Clemente può contare su un fidato compagno in questa sua lunga performance in autonomia. A sostenere il sassofonista e clarinettista milanese risuona infatti, ininterrottamente, l’eco delle navate della chiesa di Montecalvo Versiggia, che per due giorni ha ospitato, nel novembre dello scorso anno, questo peculiare progetto, frutto di una lunga e meticolosa preparazione. È un riverbero armonico carico di spiritualità che fa da controcanto alle sue linee melodiche e improvvisazioni, quasi a sfidarle in un gioco di botta e riposta ma anche a contenerle in un rispecchiarsi di pieni e di vuoti. Clemente, classe ’74, si ispira a tanti augusti colleghi (Coleman Hawkins, Sonny Rollins, Steve Lacy, Bobby Watson), ma cita in particolare come modello il sontuoso In My Solitude: Live At Grace Cathedral (2014) di Branford Marsalis, capolavoro jazzistico del terzo millennio che forse è passato un po’ inosservato.
Di quel disco si cita una traccia (Blues For One) e si ripercorre lo stesso assortimento musicale, in una tracklist che alterna standard, blues, colonne sonore, brani di musica classica, pezzi originali, libere improvvisazioni. Ma è soprattutto lo stile a riecheggiare la prova del Marsalis solista, perché anche Clemente si tiene stretto alla melodia ed evita eccessive elucubrazioni o voli pindarici sul materiale a disposizione, scavandone invece i significati più arcani e profondi in complicità con le risonanze dello straordinario “contenitore” che lo accoglie. È una scelta ben precisa, che privilegia “la dimensione orizzontale della costruzione melodica”, come spiega Paolo Fresu nelle note di copertina del disco. E se più volte, nell’ascolto di Solo, si insinua l”impressione di un’eccessiva stringatezza, e di un approccio più cameristico che jazzistico, non si può dimenticare che la priorità qui non è quella di riempire i vuoti, ma piuttosto il tentativo di far dialogare i diversi brani con i secolari silenzi di una chiesa, restituendoceli in una rilettura il più possibile personale.
Lo schema di esecuzione prevede spesso una libera introduzione a cui seguono il tema e la parte di improvvisazione vera e propria, come se si volessero mischiare le note per poi rimetterle in ordine e confonderle di nuovo. Princess Linde è forse l’esempio più calzante di questo modo di procedere, che però non ingabbia l’emozionante melodia del brano e il bellissimo timbro del sax tenore di Clemente. Ovunque prevale la sobrietà, con qualche rimarchevole eccezione. La Nani, in cui abbondano echi sudamericani e sullo sfondo incede un minimo accompagnamento ritmico, si ritaglia uno spazio a sé per ricchezza di variazioni armoniche e ritmiche, così come la finale Free Improvisation, firmata dallo stesso Clemente, che alterna pause di rilassante contemplazione, folate di swing e passaggi melodici più spezzettati. Le fonti di ispirazione, come si diceva, sono molto diverse. In A Secret Place, Rapsodia Temperante e Song For Clarinet, dove il protagonista si affida al sax soprano e al clarinetto, dominano giocosità e delicatezze assortite, in un linguaggio che riecheggia di più la musica classica.
Altrove emerge un tocco blues, come in Harlem Nocturne, nella già citata Blues For One, che ne offre un’interpretazione limpida e canonica, e nella scura e vibrante Mood (altro pezzo originale), un mainstream vecchio stile che procede per pause e riprese, suggellate dallo stesso passaggio discendente. Resta da citare il terzo brano scritto ad hoc da Clemente, Bà-Bà, il più articolato e interessante, che offre un avvolgente tema a spirale suggellato da un motivo ripetuto, mentre un passaggio scopertamente monkiano apre la via all’assolo.