Dopo la première mondiale in Brasile al 25° Festival do Rio, “Giorni felici” è stato presentato al pubblico italiano in occasione della 24esima edizione del Festival del cinema europeo di Lecce; con il regista Simone Petralia erano presenti alcuni degli interpreti, tra cui Franco Nero e Anna Galiena. Quest’ultima nei panni di Margherita, un’attrice di fama internazionale, con una carriera ricca di successi e riconoscimenti alle spalle, che vive a Roma in un appartamento ricco di ricordi, spesso in compagnia della sua agente Michela (Antonella Ponziani), di alcuni amici (tra questi, Serena e Ramiro, interpretati da Maria de Medeiros e Marcello Mazzarella) e di suo figlio Enea (Marco Rossetti), musicista infelice. La donna sta per essere impegnata a Los Angeles nelle riprese di un film diretto da un giovane regista americano quando, improvvisamente, viene colpita da problemi fisici e gli esami da lei effettuati rivelano una grave forma di sclerosi, la SLA. Ad assisterla arriva Antonio (Franco Nero), il suo ex compagno, regista insoddisfatto e padre di Enea. Margherita deve quindi rinunciare al film e si ritrova in poco tempo impossibilitata a muoversi. I due, che sono stati separati per tanti anni, affrontano la realtà presente cercando di mantenere viva la dignità e l’amore che li ha uniti. E insieme decidono di scrivere il grande finale della loro vita.
Nella sua seconda opera, il regista messinese affronta nuovamente temi dal peso specifico rilevanti, mantenendo quel realismo di fondo e quel profondo attaccamento alla verità pura e cruda che sembra essere un elemento centrale e imprescindibile del suo cinema. Se nel film d’esordio, “Cenere”, si era addentrato nel mondo della prostituzione, dello spaccio, dei “figli di papà” e della gente di strada, in Giorni felici sposta l’attenzione sulla terza età, un periodo della vita particolarmente delicato, in cui risulta fondamentale prendersi cura di se stessi, del proprio stato di salute e anche dei propri affetti. Tutto questo può venire meno o essere messo in discussione dall’insorgere improvviso e devastante della malattia, che diventa a sua volta materia narrativa e viatico emotivo per dare forma e sostanza a un dramma che riflette sulla fragilità umana e la capacità di amare e resistere nelle situazioni più difficili. Lo fa attraverso il racconto dell’odissea quotidiana di questa coppia anziana che si ritrova dopo anni di separazione a rievocare momenti felici di condivisione e a provare a ricucire strappi e lacerazioni del passato prima che giungano i titoli di coda della loro storia e di quella narrata nel film.
La pellicola mette in evidenza il dramma e il legame tra i due personaggi, affrontando temi come la malattia e la morte e sollecitando una riflessione sulla nostra concezione della morte stessa. Temi, questi, complicatissimi da trattare sui quali spesso si finisce per navigare a vista e in maniera superficiale, ricattati costantemente dalla paura di cosa dire e di cosa mostrare. Il rischio più grande, oltre a quello di non essere in grado di approcciarsi a una materia così incandescente, sta nell’evitare un certo tipo di spettacolarizzazione del dolore e al contempo di autocensura. In tal senso, Petralia riesce a trovare la giusta misura: l’onestà del racconto e la verità mai artefatta che raggiunge mediante il realismo delle scene e delle perfomance attoriali, sono gli strumenti che hanno permesso al risultato di mantenere la rotta. Manca semmai una veste più “cinematografica” con la quale confezionare i suddetti contenuti e contributi artistici. E infatti l’estetica e la componente più squisitamente formale non registrano un livello e un impatto tali da saltare agli occhi del fruitore, tanto da apparire bidimensionali e fin troppo lineari, più adatti al piccolo che al grande schermo. Ciò non è necessariamente un limite se l’intenzione dell’autore era quella di nascondere il più possibile la macchina da presa per concentrarsi sui contenuti più che sulla componente visiva.
Francesco Del Grosso (www.cineclandestino.it)