Le sceneggiature rimaste nel cassetto di Leandro Castellani

1964 – Kurt Gernstein e i campi di sterminio
Nel corso di una mia spedizione a Parigi, il responsabile dei programmi culturali della Seconda Rete RAI m’ incarica di fare alcune ricerche su Kurt Gernstein, un ufficiale tedesco che favorì ma forse cercò di opporsi al genocidio nazista, rivolgendomi al ricchissimo Archivio ebraico della città. Fra i numerosissimi documenti scovati e consultati, riesco addirittura a ottenere copie delle fatture del Zyclon, il gas malefico per irrorare gli ebrei a Mathausen. Torno in patria soddisfatto e un po’ eccitato: il personaggio e la vicenda sono del massimo interesse. Ma non si va oltre una striminzita proposta.
1964 – Storia e leggenda dei briganti italiani
Un progetto sponsorizzato da un certo funzionario televisivo al fine di sorreggere l’iniziativa, evidentemente politicamente sostenuta, di un nuovo studio d’animazione che avrebbe dovuto realizzare “a cartoni” la parte “leggendaria” illustrandone le relative strofette. Ma non si va oltre la stesura delle prime due piccole sceneggiature, che riguardano Angiolillo, il brigante calabrese celebrato da Benedetto Croce, e Fra Diavolo, eternato da un’opera lirica e da un film con Stanlio e Ollio.
Ma c’è un seguito:
1991 – Italiani anche loro
Nel 1990, lo studioso Timoteo Galanti dà alle stampe un ponderoso volume, frutto di una lunga e minuziosa ricerca, che ricostruisce per via di documenti la storia del brigantaggio nella Marca appenninica. Il volume si chiama “Dagli Sciaboloni ai Piccioni”.
Per suggerimento dello stesso autore, mi accingo a tradurre in un progetto televisivo il ricco stimolante materiale articolando in un racconto la vicenda di questi personaggi. Grande interesse iniziale ma l’ennesima periodica moria di funzionari televisivi fa naufragare il progetto o, peggio ancora, lo fa scivolare ineluttabilmente nel dimenticatoio. Come una sorta di “corner”, a ricordo dell’impresa, scriverò la storia del bandito Mason nel bel volume “La ballata dello schioppo e della croce” (2017) edito da Annulli, unendo alla storia di Mason quella del mio profeta preferito, Davide Lazzaretti.
1967 – Amore a ritmo di can can
Il mio soggetto non vuol essere un’arcigna seriosa rievocazione della vita di Jacques Offenbach (1819-1880) ma un’avventura spericolata fra realtà e fantasia, quasi un tema da “operetta”, in cui tento di far rivivere, ma schematizzati come pupazzetti di un “cartoon”, tutte o quasi le icone di un’epoca: le dame indiscrete e pettegole, le donnine poppute e un po’ cellulitiche, i politici perbenisti e corrotti, gli anarchici brutali e visionari, i poliziotti ottusi e agitati. Questa “commedia musicale televisiva” punta – o avrebbe puntato – sulla rielaborazione in arrangiamenti di gusto moderno delle migliori pagine di Offenbach nonché sulle scene più vivaci tratte dalle sue composizioni.
Corrispondono alla realtà, oltre ovviamente al personaggio di Offenbach, quelli di Halevy, Meilhac e Hortense Schneider, mentre sono di fantasia quelli di Odette, Barbebleu, Joujou e del barone Barsacq.
Questo l’inizio del mio soggetto: “Parigi 1854: Jacques è un giovanotto allampanato che parla il francese con forte accento tedesco – infatti è nato a Colonia -. Suona il violoncello all’Opéra Comique. Ha pochi amici e un carattere schivo, quasi scontroso, che non facilita certo gli incontri…”
Lo scrissi su “provocazione” di amici, in particolare di Elio Gigante, indimenticabile personaggio e sagace manager di Mina, “provocazione” che purtroppo non ebbe seguito. Gli interpreti predestinati ai ruoli principali sarebbero stati appunto Mina (Odette) e Alberto Lionello (Offenbach). Ma entrambi furono velocemente fagocitati in altre imprese. Tutta colpa di Offenbach – commentò Elio – me lo avevano detto che a nominarlo in teatro ”porta male”!
1968 – Il Guerrinaccio
Ho appena terminato un cortometraggio fatto di sole poesie, “Ogni morte di uomo”, scritto insieme a mia moglie e prodotto dall’Istituto LUCE, che Daniele Luisi, il cineasta che dirige l’Istituto e che ha prodotto il mio “corto”, mi propone di scrivere e progettare un film di mia fantasia per un pubblico di ragazzi. Credo che intenda dar vita a una sorta di contro altare al contemporaneo progetto di Lino Del Fra, “La torta in cielo”, tratto da un racconto del grande Gianni Rodari.
Il soggetto lo scrivo in poco tempo (la fiaba di un Guerrin meschino fra leggenda e fantascienza) e riscuote unanimi entusiastici consensi, e non solo dal committente. Ma l’iniziativa di Del Fra è “politicamente” più solida e di fatto già varata, forse in corso di realizzazione. Avrà come protagonista Paolo Villaggio e un esito quasi o del tutto fallimentare. Riprenderò il mio soggetto molti anni più tardi per farne un libro, “Il viaggio straordinario di Guerrinaccio nel paese della fiabe”(2011), con le illustrazioni di Emiliano Billai.
1969 – Due uno niente
Un soggetto corrosivo, violento, ai limiti dell’osceno: una ragazzo rinchiusa in un mondo di specchi e votata – più che costretta – ad atti estremi, atti ad accelerare la probabile prossima “fine del mondo” o perlomeno degli “umani”. Il tutto in un’epoca che potrebbe essere la nostra o quella di un futuro poco appetibile.
L’anziano direttore della fotografia Rino Filippini lo presenta e propone al produttore Giorgio Venturini, con cui ha rapporti, che lo trova eccitante e m’impegna a realizzare un provino con Ghislaine D’Orsay, che è la recente protagonista del film del mio maestro Nelo Risi, “Diario di una schizofrenica”. Provino per cui mi avvalgo per la fotografia del validissimo Nino Celeste. Il progetto viene poi girato al megaproduttore Goffredo Lombardo che ci riceve – me e Venturini – intronato dietro la sua leggendaria faraonica scrivania. Naturalmente non legge il soggetto ma se lo fa raccontare da me, che non ne sono felicissimo essendo più capace di scrivere che di “enfatizzare” i miei prodotti… Primo commento del tycoon: Bellissimo!!! Forse bisognerebbe cambiare qualcosa… e qui il mega-produttore si dilunga in una serie di proposte assurde che con quel soggetto non hanno niente a che fare. Per esempio: e se la protagonista fosse un’attrice di colore? E così via… E la cosa non va oltre l’amena chiacchierata…
Questa della chiacchiera post-racconto, per giudicare, correggere ma soprattutto ampliare o ridurre – e ovviamente fraintendere – un soggetto non letto, è una caratteristica che ho riscontrato in tutti quei mega-produttori, sia vecchi che giovani, che ho avuto il destro – o la ventura o la malasorte – d’incontrare!
1970 – Mille e una notte
Mi trovo a Torino, forse per girare l’”Orfeo in paradiso”, quando una sorta di neoproduttore mi abborda con una proposta allettante. Giovandosi di consolidati – o perlomeno vantati – rapporti con l’Egitto penserebbe a una riduzione televisiva delle “Mille e una notte”, in particolare delle storie ambientate in quel paese. Mi procuro il libro in edizione economica e mi metto al lavoro scrivendo una proposta unitamente alla riduzione di alcune novelle “egiziane”. Il progetto dovrebbe conciliare la validità di un’operazione culturale con l’impatto spettacolare e la piena fruibilità dello sceneggiato. Ancora una volta la proposta è all’insegna di quella contaminazione fra generi diversi che è una linea portante del mio lavoro personale, a iniziare dall’ideazione del “Teatro Inchiesta” negli anni Sessanta. Millantato credito del neoproduttore? Comunque – scritto il soggetto – non se ne fa nulla.
1970 – Nando dell’Andromeda
Mi trovo ancora a Torino quando vengo intercettato da un ex notabile democristiano, di sane origini piemontesi, Dante Graziosi, il quale mi propone un film tratto da un suo libro, che è un po’ la storia della sua infanzia e che gira attorno alla figura di un cantastorie popolare, Nando appunto. L’ex-onorevole Graziosi mi trascina addirittura a visitare, nella campagna piemontese, il mulino dove è ambientata la vicenda e dove ha vissuto la sua infanzia, un immobile rustico e suggestivo che ha restaurato a sue spese e rimesso in funzione. Libro, storia e ambiente sono interessanti, ma – come quasi sempre – abbisognano delle precise “entrature”. Ma evidentemente gli ex-notabili non vengono più tenuti in debita considerazione e il progetto naufraga ancor prima che io possa farne una degna sceneggiatura.
Notizie aggiornate: Dante Graziosi muore nel 1992, ma nel 2000 – otto anni dopo – sboccia un tv-movie dal suo romanzo, diretto da Vanni Vallino: mai dire mai !!!
1971 – Oltre la parete
Franca Nuti, protagonista femminile delle mie “Cinque giornate”, era stata l’interprete di un singolare radiodramma scritto da Giorgio Bandini, dal titolo ”Nostra casa disumana”, con la regia di Giorgio Pressburger. Insieme a Franca e consorte, l’attore Giancarlo Dettori, studiammo come articolare il testo per farne un suggestivo telefilm, esasperandone l’atmosfera di sospesa angoscia. Un produttore milanese patrocinò l’iniziativa che, ahimè, si spense troppo presto.
1970 – Paolo
La Sanpaolo film vuol riesumare e rimettere in ciclo una sceneggiatura commissionata a Pier Paolo Pasolini all’indomani del suo fortunato “Vangelo”: Paolo di Tarso, visto come un ribelle che tenta di demolire o comunque profondamente rivoluzionare la civiltà di Roma capovolgendone i valori, quindi una storia moderna con personaggi in abiti moderni. Il testo è bello, come tutte le opere di Pasolini, ma improponibile come materiale televisivo e soprattutto c’entra ben poco o niente con il Paolo della tradizione cristiana. Il neoproduttore Tagliabue, forse plagiato dal nome del “soggettista”, ritenne che fossi il regista più adatto all’impresa un po’ spericolata, in quanto non mi ero mai fatto spaventare da operazioni televisive su temi storico-politici in forme non scontate e banali, ma è ovvio che l’operazione dovesse essere opportunamente inquadrata e giustificata, quindi, in qualche senso “riveduta e corretta”. Propongo di coinvolgere nell’operazione Italo Alighiero Chiusano, oltretutto già autore qualche anno prima di un Paolo televisivo: un Paolo – o San Paolo – in due tempi o in due letture? Ma Chiusano, dopo seria “meditazione”, ritiene che non sia il caso di cimentarsi in un discutibile pastiche antico-moderno. Abbandona – anzi sconsiglia – l’impresa e così anch’io. Impresa che peraltro non farà ulteriore strada. Ignoro cosa ne sia stato del produttore proponente.
1971 – I giorni, gli uomini
Alle spalle di questo progetto c’è un libro, “Fiori rossi al Martinetto” di Valdo Fusi, e soprattutto un copione teatrale, “I giorni, gli uomini”, scritto da Davide Lajolo e rivisto e adattato dal sottoscritto che avrebbe dovuto metterlo in scena nel 1971 con la Stabile di Torino, se sull’operazione non si fosse abbattuto un infortunio… politico (che ho raccontato ampiamente sulla rivista “Sipario”del maggio 1972). Per me resta comunque l’occasione di aver frequentato per dirigerne le prove anche il milanese Teatro alla Scala nonché di aver tentato – ahimè invano – di tentare uno spettacolo teatrale spregiudicato e “d’avanguardia”!
1972 – Un vigliacco
In un paio di giornate, forse tre o quattro, nel giardino della villa di Arnoldo Foà Roma, sulla Nomentana, stendo assieme ad Arnoldo il testo-trattamento di un film che potremmo fare in tandem oppure – mi confessa Foà con il suo consueto egocentrismo – che potrebbe essere il suo debutto nella regia. La storia è un po’ autobiografica: la rifiniamo, la facciamo battere a macchina, poi lui parte per le sue imprese ed io per le mie. E il copione resta lì!
1972 – Mille tribù e una carovana
Scrissi anche questo soggetto negli anni Settanta, quando ancora i Rom si chiamavano zingari o gitani e, nonostante le macabre storie – o leggende – di furti, rapimenti e misfatti vari, erano circondati da un certo alone romantico.
Anni in cui i gabbiani solcavano ancora la superficie del mare e non quella delle discariche, in cui le rondini costruivano con l’argilla i loro nidi, un mondo in cui anche i malavitosi, gli esclusi o semplicemente i diversi venivano forse trascurati ma non lesi nella loro dignità.
In questa ottica le mie “storie del mondo degli zingari”, scritte su suggerimento del direttore di produzione Sambucini nonché del simpatico attore americano Frank Latimore, oltre ad attingere a un inedito repertorio di racconti e leggende, intendevano lumeggiare il mistero di un popolo lontano e insieme prossimo. Un modo di riconoscere agli “zingari” quella dignità forse loro negata pur nell’attuale retorica dei Rom, dei campi nomadi e così via.
1973 – J.H.Newman
Il tema – un famoso sacerdote protestante che “si converte” al cattolicesimo – mi fu proposto dal funzionario e autore televisivo Luciano Scaffa: sembra che stesse molto a cuore, ma esclusivamente per interessi culturali, a Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica, e che fosse sponsorizzato dal direttore di Rai Uno, Fabiani. Nel progetto coinvolsi Italo Alighiero Chiusano che scrisse un’ottima sceneggiatura, Ma la cosa finì lì. Vennero meno la pressione e l’incentivo o forse Scaffa si rese conto della sostanziale complessità e difficoltà del tema.
1973 – De Gasperi
Con Gian Paolo Cresci, individuo subdolo e infido quanto potente – e mi astengo dai particolari – da anni non ci guardavamo più in faccia, evitandoci accuratamente. Ma un giorno, all’epoca della sua attività di produttore per conto di Rusconi, facendo finta di nulla, da quell’individuo viscido che era, mi convocò per offrirmi disinvoltamente di dirigere un film su Alcide De Gasperi. In quegli anni ero divenuto e stimato, di fatto, il regista più abile e collaudato nel settore delle ricostruzioni storiche e quella era un’impresa rischiosa per molti ma non per me. Una sorta di tardiva richiesta di perdono per i precedenti “misfatti”? Come sceneggiatore per l’impresa era già stato cooptato il tuttofare Maurizio Costanzo, col quale ebbi i primi abboccamenti. Accettai l’incarico offertomi da Cresci ma, conoscendo il tipo, ritenni opportuno premunirmi da prevedibili incognite ricorrendo a un noto avvocato di cinema, l’avvocato Pietravalle, agente di Bud Spencer, per la stesura di un contratto capestro. Fidarsi è bene… E feci benissimo.
Il progetto De Gasperi era appetito – a mia totale insaputa – da correnti democristiane in lotta con la fazione Fanfani-Bernabei-Cresci. Giampaolina mi spingeva in modo subdolo a rilasciare continui quanto imbarazzanti comunicati-stampa ipotizzando cast fantasiosi e inverosimili, cosa che ritenevo perlomeno prematura. E sparava notizie al limite dello sgradevole: “Gregory Peck ha già firmato, sarà De Gasperi” e così via… Ma nonostante i bluff alla fine dovette soccombere ai suoi colleghi-rivali democristiani. Si cercò una mediazione: il suo antagonista politico, più tardi direttore della neonata Terza rete, si offrì di recuperare al progetto nientemeno che Roberto Rossellini, come artista super partes, il quale, da quel furbacchione che era, si fece allestire in fretta e furia una sceneggiatura da Luciano Scaffa, suo abituale collaboratore televisivo (che peraltro era e rimase un mio caro amico). La disputa tra i fratelli democristiani si fece incandescente. Alle tre di notte il leggendario Edilio Rusconi telefonò a casa mia, svegliandomi dal sonno del giusto, per scongiurarmi di recedere dal mio incarico… Non potevo fare altrimenti. Ma le mie precauzioni, una volta tanto, si rivelarono valide: il contratto di ferro che il mio abile agente aveva stipulato obbligò la produzione a saldarmi sino all’ultima lira. Modesta ma doverosa soddisfazione… A tempo debito, il film di Rossellini – il famigerato quanto ignorato “Italia anno uno”, protagonista Luigi Vannucchi – fu visto con imbarazzo dai notabili democristiani e seppellito in fretta, su loro suggerimento, in un paio di robuste scatole metalliche. Ci avrebbe pensato, molti ma molti anni più tardi, la mia amica Liliana Cavani a recuperare la biografia di Alcide De Gasperi per uno dei numerosi edificanti “santini” della premiata fabbrica Bernabei & figli.
1973 – Ipotesi
Maurizio Costanzo, conosciuto in occasione dell’operazione De Gasperi, cercò di coinvolgermi in una serie di quattro storie “futuribili”, forse sperando, o illudendosi, che fossi ben ammanicato, anche se, in verità, l’ammanicato era lui. E le stuzzicanti storie, riassunte in un breve progetto scritto in tandem, rimasero lì.
1973 e dintorni – Gli occhi del mare
Tradurre in uno sceneggiato il romanzo marinaro dello scrittore fanese Giulio Grimaldi, “Maria Risorta”, un mio sogno di sempre. Presentai inizialmente il progetto a un funzionario della RAI molto affezionato alle Marche e attento ai suoi problemi, Ludovico Alessandrini, fine cinefilo e uomo di ottima cultura, anche se operativamente un po’ impacciato. L’idea lo entusiasmò e riuscì a commissionarmi una sceneggiatura, che volli redigere in dialetto fanese. Alcune esperienze – quella di Olmi con “L’albero degli zoccoli”, che lo stesso Alessandrini aveva promosso, e prima ancora quella di Vittorio Cottafavi con “Maria Zed” – avevano dimostrato praticabile l’operazione.
“Gli occhi del mare”! Ottimo! Grande storia! Dunque si parte? Ma nel frattempo funzionari e dirigenti sono cambiati, in seguito all’ennesima periodica moria politica, con l’inevitabile avvicendamento di nuovi gratificati. E inoltre Ludovico muore effettivamente e prematuramente, senza aver avuto la possibilità di varare e promuovere il progetto ormai consolidato.
Ricominciare da capo? Sperare che i neonominati abbiano la voglia e la capacità di estrarre dal cassetto i soggetti precedentemente approvati nonché di leggerli? E allora che si fa? Attendere una decisione che prima o poi si perderà nei meandri di viale Mazzini? Ed io volto pagina e m’impegno in altre imprese che fortunatamente non mi mancano.
Torno a vagheggiare il progetto a più riprese negli anni successivi, coinvolgendo mio figlio Aldo, che presenta la mia sceneggiatura alla Commissione ministeriale per le “opere prime”, ma sempre invano. In quella Commissione dominano – e da sempre – pastette e mazzette. E finalmente rinuncio. Pubblicherò la sceneggiatura italo-fanese in volume presso l’editore-regista Arduino Sacco, nella collana “Cinema” a cura di Renzo Rossellini.
Concludo per ora la serie delle mie disavventure artistiche in campo cinema e tv. Più che disavventure sono stati incidenti di percorso o direzioni abbandonate o ripensamenti. A tutte queste cosiddette “Feilure” sono grato perché – nel bene o nel meno bene – hanno fatto di me quello che sono stato o che sono. Alla prossima!